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Leonardo 75

L’oggetto misterioso
“Ma cos’è poi mai questa scuola italiana di Parigi?” Era la domanda che temevo di più. La domanda che mi sono sentito rivolgere tante volte, da chiunque venisse a sapere del mio incarico di dirigente alla scuola italiana. La versione francese della stessa domanda era, se possibile, ancora più insidiosa – Mais c’est quoi, au juste, cette école italienne? Una locuzione che vuole inchiodarti all’esattezza, ma che sembra insinuare anche una sfumatura di dubbio sulla questione, o magari sull’esistenza stessa di una scuola italiana a Parigi: au juste! Mi sforzavo, certo, di dare risposte brevi e chiare, ma le complicazioni non tardavano ad arrivare. È una scuola pubblica, statale. E invece no, perché per la Francia sembra piuttosto una scuola privata – ma come si fa a definire “privata” la scuola di uno Stato, ancorché straniero? Dovevo poi tener conto che in Francia l’ école indica solo la scuola elementare, e semmai la maternelle. Ma come era poi possibile che un’école comprendesse anche il liceo? E d’altra parte agli amici italiani non era chiaro quel liceo di quattro anni, quando in Italia di questo non si parlava ancora – e dopo, si può andare direttamente all’Università, senza fare un anno integrativo? Nei momenti difficili mi era d’aiuto la tautologia poetica, recitata con un sorriso che sperava di sviare l’interlocutore – Una scuola è una scuola è una scuola… Ma erano espedienti, mezzucci, utili solo a guadagnar tempo – un momento di sollievo per pensare a qualcosa di più convincente. Dimenticavo allora le raccomandazioni sulla brevità e sul parlar chiaro, e passavo ad argomenti ricercati sull’importanza di una presenza culturale italiana all’estero, sugli sguardi incrociati tra tradizioni diverse. Sulle identità nazionali e sulla necessità di aprirsi a nuove esperienze. Magari con qualche battuta scontata sui francesi, italiani di cattivo umore, quando proprio si giocava sul sicuro. O all’opposto sulla rilevanza del soft power, quando mi sembrava il caso di volare alto – o almeno di far finta. Ma ero poi il primo, lo si sarà già capito, ad essere poco convinto di queste risposte; e di molte altre ancora, di cui taccio per discrezione. Del resto, a pensarci ora, a distanza di oltre dieci anni da quella sera in cui avevo ammirato per la prima volta le linee eleganti del palazzetto di rue Sédillot (era una sera di luglio, ero venuto a Parigi per conoscere la mia nuova scuola e prendere contatto con la nuova vita; un alberghetto modesto all’École militaire, poi subito fuori, a vedere la scuola dove avevo un primo appuntamento la mattina seguente; un po’ spaesato, pensieroso e molto inquieto, ancora con qualche vaga incertezza sull’opportunità di accettare l’incarico; ma la sera era bella, la luce ad ora così tarda mi sorprendeva, la Terrasse era affollata da clienti contenti di trovarsi proprio lì, giovani che indulgevano con piacere agli scherzi e alle risate; mi sedetti allora per una birra, arrivò notte, finalmente; e dopo i primi sorsi ogni inquietudine si dissolse come la schiuma), a pensarci dunque a distanza di tempo, non posso dire di avere mai dato una risposta davvero convincente. Eppure mi sembrava di sapere bene che cosa fosse la scuola italiana di Parigi. E in effetti negli anni successivi a quella birra la scuola, lo confermo, è stata sempre lì. Con le sue sedi in Sédillot e Villars; le elementari, le medie e il liceo – di quattro anni, certo; la piccola maternelle privata (sì, proprio privata) da seguire con cura e attenzione. E posso solo confermare che in fondo è proprio vero che una scuola è una scuola. E che i caratteri fondamentali di ogni scuola – il piacere della conoscenza, la motivazione, il dar valore alle tante personalità individuali in formazione – questi caratteri sono poi comuni a qualunque esperienza di insegnamento e di apprendimento. Ed è vero che i principi che chiamiamo dell’inclusione e dell’equità, oggi affermati nella pedagogia e garantiti dalla legge, ma da sempre presenti nell’azione del buon insegnante delle scuole migliori, questi principi possono accompagnare ogni relazione educativa, quale che sia il contesto istituzionale e nazionale. E ancora, è vero che sono proprio questi principi a rendere possibile il rigore nell’apprendimento e nell’insegnamento, a creare l’ambiente favorevole alla crescita personale. E così quando mi capitava di incontrare nelle classi gli studenti e le studentesse – un incontro improvvisato, o magari la sostituzione d’emergenza di un insegnante – mi piaceva raccontare loro quali fossero i principi che animavano una scuola, e una società. Magari si discuteva poi di diritti e doveri, della Costituzione italiana e della Rivoluzione francese, della democrazia e della libertà. E così io stesso ero spinto a ragionare sulle difficoltà del nostro lavoro, sugli errori commessi, su quel che si doveva cambiare e su quanto fosse difficile farlo. E poi, sul finire, sui tanti rimpianti, per quel che si sarebbe dovuto fare e non si era fatto. Ma con i ragazzi e le ragazze tutto questo era più facile. E con i bambini e le bambine addirittura commovente – così come è stato commovente vedere il lavoro di tanti insegnanti; e io ho avuto la fortuna di vederlo nei difficili mesi del confinamento, quando tutta la scuola, mi sento di dirlo con convinzione, ha dato il meglio di sé. Con amici e conoscenti, invece, le parole giuste proprio non venivano. Quell’intesa elettiva che si creava nelle relazioni con gli studenti e con gli insegnanti, dai più giovani e inesperti ai veterani dalle mille classi, e che spesso accompagnava anche i tanti incontri con le famiglie, quell’intesa fuori dalla scuola svaniva e lasciava il posto al balbettio di qualche definizione confusa. Ma forse è stato meglio così. Ogni bella esperienza, in fondo, è bene che lasci dietro di sé un sapore di mistero, o anche un alone di incertezza sulla sua stessa esistenza. E poi, ora è giunto il momento di confessarlo: che cosa sia davvero la scuola italiana di Parigi, au juste, non mi è stato mai chiaro.
Aurelio Alaimo
dirigente scolastico della scuola italiana di Parigi dal 2011 al 2020
25 aprile 2024 – Festa della Liberazione
Francesco Sacco per la scuola italiana Leonardo da Vinci
Nel 1952, eravamo in pochi studenti nella 4 liceo: 2 ragazze e 9 ragazzi.  Avevamo condiviso 4 anni
di vita del Liceo e ci preparavamo per il futuro. I professori ci accompagnavano, ma ormai noi giovani  eravamo altrove , in un’altro spazio, aperti a nuove
esperienze di vita  e attese  preparate da tempo. Per terminare l’anno scolastico organizzammo una gita ai Castelli della Loira con il professor Vernazza.
Obiettivo : ritrovare  aspetti  della nostra cultura , ritrovare il genio di Leonardo Da Vinci.
In una sosta a Tours, visitando la città, trovammo  strada facendo, un’insegna  caduta per terra che indicava la
direzione del Museo delle Belle Arti . Decidemmo di rimetterla al suo posto e tutti insieme ci unimmo al professore
Vernazza per rialzarla.
Un polizziotto ci vide partire con l’insegna sotto il braccio, non capì la nostra intenzione e ci condusse in casema.
Lì potemmo giustificare il nostro atto e ci liberarono.
Fu la nostra ultima lezione con il professore di chimica, che ci indicò che la realtà sociale è molto più complessa.
Nella foto :
Da sinistra a destra : Luigi Ferrari, Gian Paolo Lagorio, il professor Vernazza, Piero Ronci, Francesco Sacco,
Danilo Camurri, Giancarlo Crespi, Gerardo Acquaviva
Un ricordo della scuola Leonardo da Vinci di Parigi di Daniela Giacchetti
Le qualità umane dei prof del Leonardo.

Ho sempre studiato e parlicchiato il francese, a casa la mamma ci teneva, lei era di cultura francofona e mi aveva iscritto ai pomeriggi dello Chateaubriand a Roma. Arrivo a Parigi tranquilla, avevo sempre avuto sette/otto in francese! Sono in terza media e il primo impatto con la lingua francese scritta è un disastro! Due di media al primo trimestre. Con la pagella in mano da portare ai genitori piangevo fuori dalla classe, mi sento una mano posarsi sulla mia spalla: mi giro, era il prof Silvestri che con un sorriso incoraggiante mi dice: “non ti disperare, al primo trimestre prendono tutte due, al secondo 4 e poi vedrai che al terzo te la cavi con un 6. Forse anche un 7.

Chi l’avrebbe mai detto ?

Chi l’avrebbe mai detto ? Nel 1990 ero un alunno in quel di Rue Sédillot e 12 anni dopo
facevo l’insegnante. Di nuovo lì, in quel di Rue Sédillot.
Certo, in più di un’occasione, da studente a docente… il passo può essere molto corto.
Generalmente, però, la prassi è un’altra: dopo la maturità si vuole sùbito cambiare aria !
Non alla Leonardo da Vinci, dove da più di 75 anni oramai, il respiro silente e indisturbato
della scuola, un po’ come il famosissimo anello di Tolkien, continua ad esercitare il suo
richiamo su chi è transitato quotidianamente nei suoi locali, oppure tra i suoi banchi.
La vera fortuna dell’Istituto, tuttavia, non risiede tanto nella bellezza dell’edificio, quanto
nella grandezza di chi, con umiltà e passione per il suo lavoro, ha contribuito a conferire
un’anima, un volto a questa scuola. Basti pensare a chi, per amore dei discenti, della
struttura, dei princìpi educativi e di quei diritti che rendono i doveri un piacere condiviso, è
rimasto sempre oltre l’orario di servizio ogni volta che è stato necessario.
E c’è davvero chi lo fa da più di trent’anni.
Grazie a queste persone, lavorare alla Leonardo da Vinci è sempre un onore, un piacere. E
sicuramente ritornarci, per tutti gli ex-alunni, un’ulteriore occasione da condividere insieme.

Prof. Domenico Rastelli